Sempre più ristoranti aprono la propria cucina a ragazzi con disabilità mentali come autismo o sindrome di Down. Ma per chi ha problemi motori i fornelli rimangono spesso, ancora, una zona tabù. Due chef d’Oltreoceano dimostrano come sia possibile farcela, nonostante tutto.
Ci sono ristoranti resi speciali non dalla loro location, o dal menu che propongono, ma dalle persone che vi lavorano. A Firenze c’è la trattoria I ragazzi di Sipario, nella zona di San Frediano. A Torino, il Caffè Basaglia. A Lucca, La pecora nera. A Solara di Bomporto, in Provincia di Modena, La lanterna di Diogene. Al Quadraro, a Roma, La locanda dei girasoli. E tanti altri sono spuntati, negli ultimi anni, da un capo all’altro della penisola. Ad accomunarli, sono le persone che vi lavorano: ragazzi svantaggiati, affetti da varie forme di disabilità, a cui è stato scelto di dare un’opportunità lavorativa concreta, in cucina, in sala o al bancone.
Nati per volontà di associazioni o cooperative, e concepiti come progetti di solidarietà, questi locali sono diventati nel tempo realtà stabili sul territorio e, sempre di più, hanno scelto di svincolarsi da una connotazione puramente sociale per puntare sulla qualità dei piatti che offrono. Per il cliente, insomma, frequentarli è un’occasione per mangiare bene, oltre e prima ancora che per “fare” del bene. E’ il caso, per esempio, del ristorante modenese, che ha in corso una collaborazione con Slow Food e utilizza materie prime rigorosamente a chilometro zero, addirittura provenienti spesso dal proprio orto. O di quello lucchese, specializzato in prodotti tipici della Garfagnana. Si tratta di un fenomeno talmente in crescita che più o meno un anno fa Superabile, il magazine dell’Inail, ha dedicato ai “disability chef” un lungo reportage, con tanto di testimonianze e mappa dettagliata.
In questi locali, nel ruolo di aiuto cuochi o camerieri, vi sono persone affette da disabilità mentali come autismo, psicosi, sindrome di Down, paralisi cerebrale o, in generale, problemi di apprendimento e comportamento. Molte meno sono invece le cucine aperte a chi deve fare i conti con una disabilità di tipo motorio. La ragione non è difficile da immaginare: non tutte le attrezzature e gli elettrodomestici presenti in questi luoghi di lavoro sono accessibili a chi è costretto su una sedia a rotelle e inoltre, se concentrati in spazi di dimensioni ridotte, rappresentano di per sé insormontabili barriere architettoniche.
La figura dello chef in carrozzina è insomma, per adesso, un autentico miraggio, almeno alle nostre latitudini. Eppure, curiosando Oltreoceano, ci si imbatte in un paio di esperienze capaci di riaccendere la speranza. E di mostrare come una volontà di ferro, unita a un’incrollabile passione per la propria professione, permetta di sorvolare ogni ostacolo. La prima è quella dell’executive chef americano Rob Hodge, di Pittsburgh, che a 38 anni, una carriera già avviata, ha perso l’uso delle gambe in seguito a una violenta aggressione. Per “reimparare” il mestiere, ci sono voluti due anni e una tenacia unica al mondo. Ma oggi, Hodge lavora di nuovo in un ristorante: “La mia è un po’ più di una sfida. Non riesco a raggiungere pentole e altre suppellettili che stanno in alto con la stessa facilità di prima, ma posso prendere un manico di scopa e aiutarmi con quello per tirarle fuori dagli scaffali. E poi intorno a me ci sono sempre persone felici di aiutarmi”, racconta in un’intervista. La sua, nonostante possa disporre di uno spazio adattato alle proprie esigenze, è una lotta continua con azioni “semplici” come sollevare piatti caldi e pesanti: “Ho un paio di bruciature sulle gambe. Le chiamo le mie cicatrici di guerra”.
La seconda storia è quella di Pascal Ribreau. Nel 1999, quando era considerato un astro nascente della cucina canadese, è rimasto paralizzato dal petto in giù a causa di un incidente d’auto. Dieci anni dopo, lo ritroviamo socio di un ristorante di Toronto, il Célestin, dove ripropone i suoi famosi ravioli di coniglio. Il suo segreto è stato quello di non sforzarsi di cucinare seduto su una sedia a rotelle ma di progettarne, con l’aiuto di amici, una speciale, “verticale”, su cui è possibile stare in piedi grazie a un supporto particolare. In questo modo, Ribreau non ha dovuto modificare la sua cucina: “Non abbiamo dovuto spostare pentole e padelle sugli scaffali più bassi, e quando sono in piedi non rischio di rovesciare le cose”.
(Nella foto in alto, lo chef americano Rob Hodge. All’interno dell’articolo, il canadese Pascal Ribreau)